RiEvoluzione Poetica

lunedì 18 marzo 2024

CARTA STRAPPATA

 

 Marco Cinque

Sembra che ormai libri e giornali si leggano sempre meno e sempre peggio, vittime sacrificali della deriva culturale in cui versa il nostro Paese. Un Paese che taglia regolarmente risorse alla scuola, che non tutela realtà come biblioteche e librerie, che propone modelli culturali a dir poco discutibili e che ha ridotto i canali d’informazione ad armi di propaganda e/o distrazione di massa.

Negli ultimi anni circa 3.000 edicole di giornali hanno abbassato le saracinesche, mentre hanno chiuso i battenti più di 2.300 librerie, nonché innumerevoli luoghi di divulgazione culturale. Chi vive con la scrittura e chi si occupa di tradurla in carta stampata sta precipitando a grandi falcate verso un inedito declino; ma non si tratta solo di declino riconducibile a una questione meramente numerica, anche la qualità di ciò che ancora sopravvive risente di una crisi che è ben più seria e profonda di quella che si nota in superficie.

Sia giornalismo che letteratura si riflettono infatti in un buco nero inquietante, specchio di questi tempi disumani e di pari passo ad una editoria rapace, concentrata per lo più sui residui profitti e sulle poche briciole ancora da spartirsi. Quelli più seri, che siano scrittori, giornalisti, poeti, editori o librai, non se la passano affatto bene e vengono inesorabilmente risucchiati dentro una deriva implosiva.

Chi fa buon giornalismo è sempre più ignorato, quando gli va bene, oppure resta vittima, non solo metaforica, delle notizie scomode che si è coraggiosamente o incoscientemente permesso di divulgare: la vicenda emblematica di Julian Assange e il macabro record di giornalisti morti ammazzati nel mattatoio di Gaza, sono indice di un'infezione cancerosa che sta oltrepassando l'apice peggiore di qualunque altra epoca storica ci piaccia ricordare, con buona pace di una verità ridotta in brandelli.

Letteratura e poesia sono invece paradossalmente preda di una crescita bulimica che le ha gonfiate a dismisura, ma solo di tessuto adiposo: tutti scrivono e pubblicano libri, ma nessuno li legge e men che mai li acquista. Nuovi eserciti di scrittori emergenti e novelli poeti sono colti da una crisi di grafomania acuta e marciano uniti, ciascuno verso il proprio anonimato, nella speranza di diventare famosi o almeno di qualcuno che li legga e ne scopra le doti. Se soltanto scrittori e poeti avessero davvero a cuore quella parola moribonda che chiamano "cultura", di certo le librerie non sarebbero costrette a chiudere, ma tant'è.

Non bastasse, in questa deriva s’inserisce anche il florido mercato dei premi e dei concorsi letterari a pagamento, con quote d’iscrizione che variano dai quindici ai cinquanta euro. Si va da quelli legati ai club privati Kiwanis, Rotary e Lions a quelli piccoli e grandi, quelli nuovi e vecchi, quelli noti e meno noti, sparsi per tutto il territorio nazionale. Ma più che un’apprezzabile realtà culturale il fenomeno potrebbe essere definito un business che raccoglie le ambizioni di autori e autrici che aspirano al massimo a ottenere pergamene di partecipazione, attestati, coppe e targhe prodotte in quantità industriale, da incorniciare e ostentare nei salotti oppure da mostrare con orgoglio sulle proprie pagine social. Dall’altra parte c’è poi il business dei grandi premi, quelli seguiti da TV e giornali, quelli che, quasi sempre, incoronano nomi che pubblicano con gli editori più ricchi e importanti della filiera.

In questo strano fenomeno di pseudo-cultura un tanto al chilo, s’inseriscono anche i festival e gli eventi culturali, dai più famosi e celebrati a quelli meno noti, per finire a quelli praticamente sconosciuti. Sembra che ormai ogni città, ogni paese, ogni minuscolo borgo, borgata, quartiere e contrada abbia il suo festival culturale da promuovere, dove scrittori, poeti e giornalisti si alternano sui palcoscenici, leggendo versi, intervistandosi tra loro o presentando libri.

Anche molti editori, soprattutto quelli della domenica e quelli a pagamento, si sono adeguati al mercatino dei concorsi e festival d’ogni sorta, organizzando o semplicemente aderendo alle migliaia di manifestazioni che rappresentano un humus fertile su cui prosperare. I prezzi di copertina dei libri sono spesso proibitivi per la bassa qualità di ciò che è offerto e molti ingenui autori si consegnano spontaneamente nelle mani di venditori di pentole riciclatisi in vannamarchi dell’editoria, i quali promettono mari e monti agli incauti scrittori, salvo poi far pagar loro, a caro prezzo, i costi della pubblicazione. Nelle home page di molti di questi editori, se si vanno a scorrere i nomi di chi vi pubblica, al di là di qualche reperto archeologico riciclato tra quelli studiati a fatica sui banchi di scuola, troviamo foltissime schiere di perfetti sconosciuti, titoli raccapriccianti e contenuti forieri di una retorica stantia. Insomma, più che odore di cultura vi si coglie un certo sentore di muffa.

Il non plus ultra delle pubblicazioni inutili si materializza però in quei contenitori di nulla che sono le antologie poetiche: vere e proprie insalatone miste, a tema libero quando va bene, oppure dedicate alla mamma, al papà, alla nonna, all’amore, all’amicizia e ad altre stereotipate amenità. Naturalmente il trucco qui sta nel far prenotare a ciascuno degli autori e delle autrici un certo numero di copie, spesso a prezzo pieno, in modo che risulti assicurato un discreto profitto per il furbissimo editore pataccaro di turno. Ciò non significa che non esistano editori seri (a prescindere dalla notorietà), autori di qualità (a prescindere dai giudizi soggettivi della critica) e iniziative pubbliche apprezzabili (a prescindere dalla generosità degli sponsor) a tenere vivo il livello culturale, ma ultimamente si confondono o si perdono nella mastodontica offerta di una cultura di plastica, pensata e realizzata solo per essere consumata e poi dimenticata.

In questo variegato panorama dell’editoria, si inserisce con prepotenza anche il ricorso alle auto pubblicazioni, dove il colosso Amazon ricopre un ruolo economico e divulgativo determinante. Basti pensare alla recente auto-pubblicazione sulla piattaforma Kindle Direct di un libro spazzatura, sia per i contenuti che per la qualità letteraria, balzato clamorosamente in testa alle classifiche delle vendite. La cosa emblematicha è che il volume non è opera di uno scrittore, un poeta, un filosofo o un giornalista, ma di un generale dell’esercito che ha puntato più sull’ignoranza che sulla cultura del suo pubblico.

Anche se prevedibilmente il web prenderà posto della carta stampata, non si illudano gli alberi, comunque anche la loro sorte è segnata da deforestatori ben più feroci e con molti meno scrupoli dei vecchi consumatori fuorimoda di libri e giornali. Solo ai sogni e ai miraggi sarà concessa l'immagine di una lettrice o un lettore che ancora sfogliano pagine di carta, con la schiena poggiata al tronco di un albero e le fronde a fargli ombra. 

 

lunedì 6 novembre 2023

Una storia dal braccio della morte


Conosciamo bene cosa significhi un omicidio e sappiamo quanto sia importante interrompere il cerchio della violenza. Non possiamo impedirla tutta, ma possiamo far finire quella dello Stato che uccide in nostro nome”.
Organizzazione Famiglie per la Riconciliazione


MICHAEL WAINE HUNTER
(Braccio della morte di San Quentin, California)

È solo un alto giorno nel cortile degli esercizi fisici del braccio della morte. Un altro giorno da estorcere a questa vita, esattamente come i tremila e più che ho già passato qui, nella prigione di San Quentin, in attesa della mia esecuzione.
Sto aspettando il mio turno per utilizzare i pesi da ginnastica e, nel frattempo, i miei occhi si perdono nella muraglia che mi separa dal resto del mondo. Le pareti color giallo mostarda contrastano vivamente col mio abbigliamento da carcerato color blu, che mi fa diventare un eccellente bersaglio per i fucili d’assalto delle guardie. I miei occhi vagano sulle pareti imponenti, fermandosi nei buchi lasciati dai proiettili. Mi accorgo che gli sfregi nei muri non sono mai esattamente nello stesso posto, e penso che forse rimanere vicino a un punto già bersagliato mi terrà in salvo dalle pallottole future. Ma scuoto la testa e rido a quest’idea così assurda. Non ci sono posti sicuri quando una guardia preme il grilletto del suo fucile e manda una pallottola verso il cortile. Se la pallottola non colpisce subito il prigioniero preso di mira, si schianta contro la parete, si frammenta, rimbalza a caso e spesso ferma la sua corsa solo dopo aver trovato la carne di un carcerato. Il colpo di fucile è quasi simultaneo al gemito del prigioniero colpito. In lontanaza il suono del fischietto avverte che le guardie si stanno affrettando verso il cortile con una barella per lo sfortunato che ha bisogno di essere portato in ospedale o all’obitorio.

Il mio sguardo ora s’innalza sulle pareti gialle, le percorre in su, fino al cielo azzurro solcato dagli uccelli che volano nel vento. I loro stridii penetranti sembrano deridermi, come se mi invitassero ad unirmi a loro in quella danza di libertà, nel mondo al di là dell’acuminato filo spinato che mi confina. Dopo un po’ sento di averne abbastanza di questa frustrazione, e guardo nel cortile gli altri condannati che oggi hanno scelto di venire a fare i loro esercizi fisici. Sembriamo tanti criceti ingabbiati che corrono nella loro ruota e che si illudono che il movimento sia libertà. Mentre guardo questi uomini sudare sotto il sole, comincio a immaginare tombe di marmo con incisi i nomi delle persone assassinate dagli stessi che ora sono qui in questo cortile; un cortile che tutto d’un tratto si fa più affollato. Così i fantasmi delle vittime della violenza che ci ha condotto nel braccio della morte si uniscono a noi.

Vedo un uomo seguito da una dozzina di ragazzi singhiozzanti che gli chiedono perché dopo averli violentati si sia preso anche le loro vite. Quel condannato prova a ignorarli, ma quei ragazzi gli sono intorno e pretendono una risposta.

Vedo un altro uomo perseguitato dal fantasma di suo padre che gli urla che lo massacrerà di botte quando lo prenderà. Il condannato risponde con calma: “No, non mi colpirai di nuovo perché sei morto ed io ti ho ucciso”. Non c’è un barlume di trionfo nella voce di quest’uomo, che si allontana dal fantasma di suo padre col viso pieno di tristezza.

Vedo una guardia in uniforme che chiede a un condannato: “Perché mi hai ucciso? Ti avevo dato i soldi che volevi”. Per un momento non c’è risposta, poi il condannato prova a spiegare il suo panico durante quella rapina e di come le cose fossero sfuggite al suo controllo. Ma un carnefice non troverà mai le parole per convincere la sua vittima.

Il cortile adesso è pieno di fantasmi di vittime che gridano, che piangono, implorano e minacciano i condannati; in attesa di una spiegazione, del perché sono dovuti morire. Alcuni condannati provano ad andarsene, altri cercano di dare una risposta, ma scopriranno che per le loro azioni non ci saranno mai soluzioni, non ci saranno mai risposte.

Vedo un condannato che sta in un angolo, da solo. Non c’è nessun fantasma intorno a lui, nessuno che gli faccia domande senza risposte. Sebbene l’accusa abbia convinto la giuria che quest’uomo è colpevole di omicidio, lui in relatà non ha ucciso nessuno. È solo una vittima tra i carnefici. Egli andrà a morire nella camera a gas con la consapevolezza della sua innocenza.

All’improvviso mi sento chiamare e, sbattendo le palpebre, mi risveglio da quelle apparizioni. Il luogotenente che si è degnato di chiamare il mio nome mi sta fissando da oltre il recinto. Mi vuole parlare. Se ne sta lì rigido nella sua uniforme, con quei gradi luccicanti che gli danno chissà quale convinzione d’autorità. Mi avvicino riluttante al recinto, senza dire niente, in attesa che lui impartisca i suoi ordini. “Metti le tue cose sotto la cuccetta domani! Dobbiamo imbiancare la cella!”, comanda.

Provo una profonda rabbia all’idea che delle uniformi grigie invaderanno l’unico posto che mi fornisce rifugio, e a stento mi trattengo dal gridare: “Stai lontano dalla mia cella, luogotenente!”. Negli anni che sono stato rinchiuso nella scatola di quattro piedi per dieci che chiamo casa, sono arrivato a conoscerne ogni screpolatura della vernice, ogni inclinatura del pavimento e delle pareti. Tutto lì mi è familiare e non m’importa se le stagioni cambiano o se la luce filtra più debole attraverso le sudicie feritoie di questo carcere.

Non cambiare il mio mondo luogotenente, non farlo; perché nel braccio della morte i cambiamenti sono sempre in peggio! Non puoi capire che le persone come me sono la garanzia per il tuo posto di lavoro. Senza gente come me, quelli come te non potrebbero gironzolare qua attorno nelle loro brutte uniformi, con quell’immotivata aria di superiorità. Non capisci, sebbene ti senti lieto di avere l’opportunità di uccidermi, che sono proprio io a permetterti di vivere.

Per quanto tutti questi pensieri percorrano la mia mente, riesco a mantenere una calma estrema. Allontano la mia frustrazione e vado a sedermi contro il muro. La mia schiena trova supporto nella parete a cui mi appoggio, e mi chiedo cosa farebbe a questo muro un terremoto: forse lo farebbe cadere? Mi permetterebbe di andare in libertà come gli uccelli sopra di me? Rido dei miei pensieri, perché so che non ci farei nulla con la mia libertà. Dopo aver ricevuto per un decennio i pasti dalle guardie, morirei di fame in una stanza aspettando l’arrivo del cibo. Sarei incapace di aprire una porta e andare fuori. Starei lì seduto, in attesa di una guardia che mi cerchi per avvolgere il mio corpo di catene e che mi scorti verso la luce del giorno.

Sono molto cambiato da quando sono arrivato a San Quentin. Ora quando i miei amici mi vengono a trovare, gli chiedo di venire uno alla volta. Mi riesce difficile conversare con più di una persona alla volta quando mi portano notizie dal mondo esterno. Più di una persona per volta sarebbe quasi troppo per me, mi renderebbe preda del panico.
Mentre guardo il cielo, vedo che gli uccelli se ne sono andati. Tra poco verranno le guardie a chiudermi nella mia cella. Per un attimo ho paura che tornino i fantasmi, ma guardandomi attorno non ne vedo traccia.

La mia mente adesso è richiamata da una lettera che ho ricevuto dai mas-media. I media mi scrivono frequentemente per indagare sulla mia colpevolezza. Tutti hanno colpe, ma loro sospettano che io ne abbia più di una qualsiasi persona media che vive nel mondo esterno. Mi auguro che i loro sospetti siano corretti. Per alcune ragioni a me incomprensibili i media mi chiedono di dare spiegazioni, ma come posso spiegare le mie ragioni ai media quando non posso farlo neanche coi fantasmi che in privato mi perseguitano ogni giorno? I media… ricordo bene la telecamera che mi puntarono sul viso, in attesa che la giuria parlasse e dicesse che sarei dovuto morire. Tuttavia dovevo ancora attendere la sentenza formale: il pronunciamento rituale fatto da figure avvolte in tonache nere. Il giudice recitò la sentenza in termini legali, che solo gli avvocati potevano comprendere. La telecamera era pronta, in attesa di rubare una mia reazione al pronunciamento della parola “MORTE”. Se la mia reazione fosse stata di restare impassibile, il telespettatore coi vestiti alla moda e i capelli ben pettinati, il telespettatore medio insomma, avrebbe asserito con certezza che sarei stato un animale senza emozioni. Se avessi riso, questo avrebbe significato che avrei avuto così poca umanità da non considerare nemmeno la mia stessa vita. Se fossi stato triste o disperato, allora avrebbe significato che il dispiacere sarebbe stato solo per me stesso, quando invece avrei dovuto averne per le vittime.

Un giorno, lontano dagli occhi delle telecamere, un altro condannato mi raccontò la sua storia. Mi disse: “La madre dell’uomo che uccisi, durante il processo si sedette vicino a mia madre. Iniziò dicendole che non la riteneva responsabile per la morte di suo figlio. Mia madre pianse e passarono insieme il resto del giorno, nell’aula, a parlare sottovoce. Il giorno seguente la pubblica accusa chiese alla donna di cambiare posto; le fece osservare che non era opportuno che sedesse vicino a mia madre, perché questo poteva vanificare i loro sforzi nel cercare di ottenere un verdetto di condanna a morte. La donna rispose che sapeva cosa significasse seppellire il proprio figlio, e non aveva nessuna intenzione di aiutare l’accusa ad uccidermi per poi costringere mia madre a seppellirmi. La giuria, comunque, tornò con un verdetto di condanna a morte.
Venni scortato fuori dall’aula e guardando indietro vidi quella donna abbracciare mia madre. Piangevano entrambe. Quell’immagine è rimasta scolpita nella mia mente, ci penso ogni giorno. Non sapevo che esistesse gente come quella donna a questo mondo. Vorrei aver potuto realizzare prima quanto una mia azione avrebbe ferito questa donna e tutte le altre persone che amavano quell’uomo che mi provocò e che uccisi. La mia rabbia di un attimo ha prodotto un’eco attraverso così tante vite, portando un senso di perdita e di tremendo dolore a tutti quelli che erano legati alla vita che ho spento. Nel culmine della mia rabbia davvero non capivo l’enormità causata dal semplice atto di premere il grilletto. Farei qualsiasi cosa per ridare il figlio a questa donna, ma ormai è troppo tardi”.

Capisco le emozioni di quest’uomo. I miei fantasmi mi rammentano ogni giorno che ragazzo immaturo, superficiale e sprezzante io fossi, quando una decina di anni fa venni arrestato per omicidio. A volte arrivo perfino a desiderare la pena di morte che lo Stato della California mi ha promesso. Altre volte, invece, mi sveglio col terrore di morire nella camera a gas. In verità credo di aver paura sia di vivere che di morire.

Le guardie cominciano a chiamare i nostri nomi, significa che è ora di tornare nelle nostre celle fino a domani. Alzandomi, tocco il foro nella parete lasciato da una pallottola. Mi viene in mente che se provassi ad arrampicarmi sul muro le guardie sparerebbero e l’attesa per l’esecuzione finirebbe. Ma se la pallottola non mi uccidesse subito? Se mi riducesse paralizzato? Le guardie poi mi spingerebbero con la sedia a rotelle fino alla camera della morte. Mi ritroverei a sbavare, incapace di controllare le funzioni del mio corpo mentre mi preparerebbero per essere ammazzato, soffocato dal gas. Non so se ho più paura di morire o di rimanere paralizzato, ma oggi non scavalco il muro, oggi non voglio invitare un proiettile all’appuntamento con la mia carne.

Mi incammino verso il cancello, le guardie piazzano le catene sul mio corpo e avanzo pesantemente trascinandomi verso la mia cella. Domani sarà come oggi e oggi è lo stesso di ieri. Forse domani sarò in grado di soddisfare i miei fantasmi. Sebbene io speri con tutto me stesso di riuscire a trovare le parole per spiegare a quei fantasmi perché sono morti, anche nel caso queste parole esistessero, loro continuerebbero ad eludermi fino a quando anch’io non sarò un fantasma. E allora, chissà, anch’io potrei fare le stesse domande a quel giudice in tonaca nera, all’accusa in completo grigio o più semplicemente a quell’elettore che ha votato per la pena di morte sulla sua scheda elettorale.

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Michael Wayne Hunter (nato nel 1958) era un prigioniero e scrittore del braccio della morte di San Quentin, California. Fu incarcerato per aver ucciso suo padre e la matrigna nel 1981. Prima di commettere il suo crimine è stato quattro anni nella Marina degli Stati Uniti. Sposato con Teresa "Terri" Hunter, ma divorziò nel 1989. Originariamente condannato a morte nel maggio 1984, la sua condanna è stata commutata all'ergastolo senza possibilità di libertà condizionale dopo un nuovo processo nel febbraio 2002.

* Testo tratto dal libro di Marco Cinque "Giustizia da morire", Edizioni Multimedia

giovedì 28 settembre 2023

Luan Rama, “Cose animate” - Poesia

Luan Rama
“Cose animate” - Poesia
Paris Les Livres Rama, 2023

di Marco Cinque

Non ho la presunzione di dare etichette o di spiegare ai lettori cosa sia e cosa esprima la poesia di Luan Rama. Il mio soggettivo approccio alla lettura mi suggerisce sempre di non violare in alcun modo l'indefinibilità del linguaggio poetico, per questo provo una certa allergia verso il mondo della critica letteraria e verso i suoi forbiti interpreti, che spesso pretendono di tradurre l'intraducibile, piegandolo alla loro personale interpretazione.

Premesso ciò, mi sono immerso tra le pagine delle poesie di Luan cercando di avere quella nudità di approccio che trovo utile per poter leggere senza i condizionamenti o le gabbie mentali che ci rendono facilmente ostaggi dei nostri stessi retaggi culturali e, quindi, anche limitati nella capacità di comprenderne i molteplici significati.

Quel che ho percepito leggendo la raccolta poetica “Cose animate”, non è semplicemente un viaggio poetico stereotipato nell'amore, nei sentimenti, nell'arte, nella letteratura, nella storia e nella cultura, ma un percorso di vita, sia vissuta che immaginata, sia intrisa di sogno che di realtà, capace di trasformarsi in una dimensione tanto personale quanto universale. E ho percepito anche quello stare soli che non ha niente a che fare con la solitudine, ma che è condizione necessaria per aprirsi ad un ascolto più intimo, più profondo.

Leggere i testi poetici di Luan è stato come vedere un film, contemplare un dipinto, immergersi tra le parole di autori e autrici senza tempo, ascoltare note immortali che hanno dato forma alla musica e tanto altro ancora. Insomma, è stato come attraversare la storia stessa dell'umanità, ricordandone il passato, vivendone il presente, ma anche immaginandone possibili futuri che leghino, tengano assieme tutte le possibili domande e risposte, ma includano anche i misteri che non possono e non vogliono essere svelati.

Tra le parole e le pause che abitano i colori poetici di Luan, tra i loro suoni e i loro silenzi, mi è sembrato come se persino il tempo perdesse i suoi lineamenti, e non ho trovato possibile stabilirne la misura. Tutto qui si mescola, mentre leggi e ti ritrovi con un pennello in mano, mentre dipingi e le forme diventano parole, mentre le corde di un violino vibrano nel cuore, mentre reciti con le voci delle stelle e mentre i versi di questa raccolta ti abbracciano, ecco che il verbo dell'umano torna in te e continua a danzare e danzare e danzare... nella bellezza.
Grazie Luan.



sabato 9 settembre 2023

MAURO MACARIO: il rumore della nebbia

 

MAURO MACARIO
Il rumore della nebbia”, Puntoacapo Edizioni.

di
Marco Cinque

Sembra quasi che si muova su una zattera di versi il mondo poetico di Mauro Macario, avanzando attraverso il sordo “Rumore della nebbia”, forse in cerca di un approdo, di un faro, di un bandolo che non gli faccia perdere la strada nel labirinto della follia umana e dei tanti Minotauri che la abitano.

Ho tra le mani questo piccolo libretto, la copertina ruvida, essenziale. Dentro c'è la dedica del suo autore e la prefazione di Marco Ortolani, che ho molto apprezzato, ma anche rimandato, come mia prassi, alla fine della lettura del viaggio in versi, non per mancanza di considerazione o rispetto, ma per non esserne in qualche modo condizionato e mantenere un mio personale metro di lettura.

Ammetto di non essere capace - e nemmeno mi piace - di scrivere una recensione letteraria forbita o una critica accademica colta, quello è un mondo che non mi appartiene e mi fa invece pensare a quelle ricette mediche piene di parole incomprensibili se non per gli addetti del mestiere ma, per quel che mi riguarda, temo che la poesia non sia mai stata un mestiere.

E allora sono qui, il più nudo possibile da preconcetti e sovrastrutture, libero da gabbie stilistiche e prigioni formali, a farmi condurre dalla zattera di Macario. La necessaria nudità, indossata per avere una prospettiva di sguardo incontaminata, conduce in una dimensione che rende possibile ascoltare e sentire oltre le parole scritte, a percepire il non detto, a dare un suono anche alle pause tra le parole, a decifrare l'indecifrabile che la poesia detiene per sua stessa natura, una natura capace di essere al contempo sia personale che universale.

C'è il sorriso tragico del pagliaccio, la consapevolezza più lucida e feroce, l'ironia e l'autoironia più coraggiose e già dalle righe inaugurali del primo testo,
Crociera forza sette, la zattera di Macario è scossa dai flutti scomposti della controversa natura umana e da tutti i suoi continui naufragi: “Le conchiglie frantumate sulla battigia / hanno lasciato le voci sul fondo / a calpestarle / scrocchiano come ossa rotte / la memoria fragile dei vecchi / si china ogni inverno / su spiagge gelate / a incollare sussulti / al silenzio dell'età”.

Il ricorso alla radiografia letteraria, o peggio, alla vivisezione dei testi poetici, per la mia soggettiva e discutibile opinione, non ha alcun senso, a maggior ragione davanti a chi ammette senza tanti fronzoli: “Io scrivo senza censure / perché poesia e anarchia / sono gemelle in utero mundi...”. Dunque, anche lo sguardo di chi legge dovrebbe essere capace di sentirsi parte dello stesso “utero mundi”, per riuscire a liberare gli occhi dalle prigioni di visioni precostituite.

Il viaggio poetico di Macario è durato due mesi, mentre poco più di un'ora è stato il mio tempo di lettura. Eppure, la sensazione che tra un'ora e due mesi non ci sia stata alcuna differenza, alcuna distanza, è forte e mette in discussione persino le nostre soggettive leggi del tempo, perché alla fine il tempo di un fiore, nella sua percezione, non è più breve di quello d'una sequoia. La differenza forse sta nella capacità di saper appartenere al tempo piuttosto che pretendere che esso ci appartenga, piegandolo alle nostre ridicole ed egoistiche esigenze.

Finito di leggere, richiudo il libretto e scendo dalla scomoda zattera di Mauro Macario, sperando che la nebbia si sia diradata e il suo rumore disperso. Invece mi ritrovo ancora qui, nella stessa deriva, nello stesso viaggio, nello stesso labirinto, nella stessa nebbia, nella stessa poesia che mi ha racchiuso in sé e che non mi lascerà più andar via. È come se tra chi scrive e chi legge si diventasse un tutt'uno, stelle dello stesso cielo, naufraghi dello stesso mare.





martedì 13 settembre 2022

POETI E POESIA

di Marco Cinque

 

Non so se credere o meno nell'effettiva esistenza dello status di poeta, di certo credo che esista la poesia, pur con tutta l'indefinibilità che la contraddistingue. Penso che la poesia, nelle sue molteplici forme, sia uno stato dell'essere che abita in ciascuno di noi, nessuno escluso, anche se poi in molti perdono o dimenticano qualunque contatto con essa, così come d'altronde si perde o si dimentica anche il nostro stesso essere umani, visto l'incombere di cotanta disumanità.

Non trovo nemmeno accettabile il fatto che se si scrivono e si pubblicano libri di poesia, significa che ci si possa automaticamente anche fregiare del titolo nobiliare di “poeta”. Molti dei cosiddetti “poeti”, infatti, in realtà sono più che altro dattilografi o assemblatori di parole, a prescindere dalla loro notorietà, dal talento linguistico (nel senso dell'uso ruffianesco della lingua) o dagli amici importanti nei posti giusti.

Al di là di chi siamo, di chi fingiamo di essere e di chi non saremo mai, la cosa più indigesta per chi fa della poesia la propria stessa esistenza, piuttosto che un pretesto per la notorietà o uno strumento di esibizione e/o affermazione, è sentirsi dire la frase fatidica: “comunque il tuo vero valore verrà alla luce per i posteri”. Il problema è che quel medesimo valore riconosciuto eventualmente post-mortem, in vita viene invece ignorato, sminuito e persino deriso, mentre la coerenza su cui si fonda il senso della poesia ti condanna irrimediabilmente a una povertà materiale. O meglio, materialistica.

Figuriamoci poi se per chi non ambisce ad “essere qualcuno” in vita glie ne freghi qualcosa di esserlo dopo la morte. Questa è solo una scemenza consolatoria, come quella che dice che i poveri sono ricchi dentro. Ma poter condurre una vita almeno dignitosa e ambire, al massimo, a riconoscimenti come ad esempio la “Legge Bacchelli” in Italia (per fortuna che esiste. Non per molti, ma esiste), ti costringe comunque a stabilire un compromesso con l'etichetta di “poeta” o di artista più in generale. Quindi, che ti piaccia o meno, devi fregiarti di quel titolo astratto, di quel ruolo fittizio, di quel mestiere spesso disconosciuto, anche se non ci credi, perché purtroppo è l'unico che possa darti da mangiare, soprattutto quando la vecchiaia e i malanni ti divorano un boccone dopo l'altro.

Allora devi scontare persino l'umiliazione di questa contraddizione, quando la poesia in cui credi ti chiede di guardarla negli occhi, che sono quelli della verità dell'essere, per scoprire che proprio quell'essere ha purtroppo dovuto piegarsi ad altre ragioni, ad altre necessità. Quindi quella verità si allontana da te, lasciandoti più solo di quando eri solo, più nudo di quando non avevi che la tua pelle, perché quando la poesia è per te una necessità come l'acqua da bere o l'aria da respirare, non puoi avvelenarla o inquinarla, dato che lei stessa ne morrebbe prima ancora che possa morirne tu.

E mentre si muore, la poesia è forse l'ultima cosa che resta viva sulle labbra. L'unica ambizione allora è che possa farlo in tutta la sua incompiuta purezza, in tutta la sua insondabile verità. La poesia perciò non può essere un mezzo per ottenere la felicità, al contrario, è più probabile che diventi un percorso che costa un prezzo molto salato, che non riuscirai mai a pagare. Poi la consapevolezza che dovrai elaborare quel dolore per farne un tuo compagno di viaggio, trasforma l'idea stessa di felicità, mettendo in crisi tutto il suo carico retorico. Ecco perché ridi nonostante le lacrime. Ecco perché continui a cercare nonostante la disperazione. Ecco perché seguiti ancora a chiederti: “come potrò mai fare di questo tormento la gioia altrui?”.


lunedì 2 agosto 2021

ARPA A BOCCA

di Marco Cinque

Questo lavoro di Gabriel Impaglione somiglia a una sorta di viaggio poetico circolare, dentro e fuori di sé, preceduto da una dichiarazione d’amore, quella di Giovanna Mulas, poesia nella poesia che spariglia le scontate e adulanti prefazioni che troppo spesso siamo costretti a sorbirci o a saltare a pié pari.

La raccolta Arpa a bocca, edita da Book Publishing, è un susseguirsi di finestre aperte sul mondo, su mondi altri, sul tempo, sulla parola, sulla verità, sulla menzogna, sulla storia, sulle menzogne della storia, sul senso, sui sensi, sulle mille voci del silenzio e si fa sintesi tra filosofia e animismo, metafora di un respiro resistente che mette in gioco i propri polmoni per difendere il colibrì dalle fiamme con cui la specie umana sta dilaniando se stessa e il suo mondo.

Coinvolge il modo in cui l’autore sa coniugare la passione rivoluzionaria all’amore, senza nascondere i propri limiti, le proprie cicatrici, tornando alle sue radici siciliane per farsi attraversare da un sentimento di appartenenza che non è la stucchevole retorica di patria & bandiera, ma un luogo indefinito e indefinibile, senza inizio o fine, come una risacca che torna alla propria onda.

Le poesie di Arpa a bocca non sono solo segni imprigionati tra i margini di un foglio ma, come lo stesso marranzano -lo strumento musicale che evocano-, si fanno al contempo sia suono che ritmo, pentagramma dove le parole diventano gesti e viceversa. Nessuna distanza sia permessa tra poesia e vita.

Nascere, vivere, partire, tornare, unire le sponde dei propri mondi in una consapevolezza dove essere ogni cosa e dove ogni cosa sia te, per tradurre il mistero senza svelarlo, smascherare il sicario senza tagliargli la gola, dare un senso alla scrittura necessaria come il pane e lasciare, parafrasando Ferré, che “i versi cantino nella testa dei popoli”, al ritmico suono di un’Arpa a bocca, una nota unica capace di contenere tutte le note.
Grazie Gabriel.

https://www.agbookpublishing.com/product/gabriel-impaglione-arpa-a-bocca/



mercoledì 24 marzo 2021

LA POESIA: nasce dal dolore e si protende alla luce



di Marco Cinque


Credo che non siano tanto le parole a definire la poesia, ma è piuttosto la poesia a definire le parole che la rappresentano. Per quanto si studi, per quanta fine grammatica si utilizzi, per quante migliaia di idiomi si possano sapere e per quanti celebrati autori e autrici si collezionino per ostentare la propria conoscenza, questo non sarà mai sufficiente per accendere quel fuoco misterioso e insondabile che esiste da ancor prima dell’avvento della parola scritta, della grammatica, dei libri. Le descrizioni, le definizioni, le etichette che si danno alla poesia sono infinite, tuttavia risultano immancabilmente inadeguate, parziali, fuorvianti, strumentali, stucchevoli, persino inutili.


Spesso coloro che si definiscono e vengono definiti esperti o critici, sono dei frustrati presuntuosi che non vogliono farsi una ragione della propria frustrazione e allora si arrogano il diritto di imporre la loro visione soggettiva per dare patenti di poeticità a proprio uso e consumo. Così, ogni giorno, si leva una voce che pretende di spiegare ciò che non può essere spiegato. Così, ogni volta, qualcuno viviseziona un corpo poetico per cercare di capire dove può trovare il suo cuore, i suoi polmoni, i suoi muscoli, la sua pelle ma, quando rimette assieme i pezzi per dar loro una parvenza di vita, ciò che resta è solo un cadavere smembrato e in putrefazione. Così, ad ogni occasione, cercando di spiegare i perché e i per come della poesia, la si uccide.


 La rincorsa maniacale ad aggiungere parole rare o inusuali, verbi rivoluzionari, neologismi sorprendenti, metriche innovative, sintassi spaziali e quant’altro, non contribuisce a far trovare il bandolo della poesia. Piuttosto che aggiungere bisognerebbe invece togliere, depurare, liberare la poesia da tutto l’armamentario che impedisce di intravedere il suo corpo nudo e tremante, che non permette di riconoscere in essa uno stato dell’essere che appartiene a tutti, non solo a una casta.

 
Per quanto se ne possa disquisire, la poesia non può essere partorita da una stereotipata felicità e/o da una bellezza idealizzata della vita. Che si sappia, ogni parto prevede una gestazione, un peso, una fatica, un corpo che si deforma, un dolore profondo, lancinante e ciò che ne scaturisce non è un canto di gioia, ma un vagito di smarrimento, un pianto dirotto, un ancestrale urlo in faccia alla vita. Penso perciò che la poesia nasca proprio dal dolore e dalla sua elaborazione. Non mi sento pertanto di augurare a cuor leggero quest’idea di poesia, così come non augurerei a nessuno la sofferenza, a meno che la sofferenza non sia intesa come percorso di consapevolezza e guarigione, ricordando però che si può guarire dalla menzogna, dalla finzione, dalle illusioni, non certo dal dolore e dalle cicatrici.


Ma che senso ha la poesia per una persona senza problemi, felice e spensierata, se non quello di permetterle di cimentarsi in un mero esercizio formale, in un estetico assemblaggio senza alcuna profondità? Non a caso è proprio nei luoghi più oscuri, pieni di sofferenza e disperazione, che ho visto nascere quella luce che chiamiamo poesia ma, non essendo innocua o gradevole per chi la legge, spesso è condannata a restare nel buio. Ho comunque potuto toccare con mano e sperimentare in prima persona quanto i contesti disumani e impoetici possano invece generare l’umanità della poesia, quella più autentica, quella senza padrini & padroni o un qualunque  prezzo da corrispondere.


Di converso, è curioso osservare quanto a un crescente impoverimento  della sensibilità umana, oggi minata da derive globali di personalismi, individualismi, egocentrismi e antagonismi, corrisponda invece una presunta fame di poesia, con centinaia di migliaia di poeti che, per numero, potrebbero dar vita persino a un nutrito partito poetico mondiale. Infatti, pur non avendo un mercato - in troppi scrivono e in troppo pochi leggono -, fioccano richieste di arruolamento al nobile linguaggio, per aggiungere il proprio nome agli sterminati elenchi dei poeti che, comunque, resteranno sconosciuti; ma vista l’abbondanza della richiesta, ormai fioccano anche editori trasformati in venditori di pentole, che cavalcano questa ingenua necessità promuovendo illusioni in forma di libri, invariabilmente invenduti e da pagare a caro prezzo dai loro stessi autori.

 
Disgraziatamente, l’immarcescibile narcisismo del poeta e l’influenza di una cultura appiattita sull’esibizionismo, non fanno che accrescere il numero dei poeti e impoverire la poesia. Quanti però sono pronti a pagare davvero, sulla loro stessa pelle, una poesia che non risulti docile, ammaestrabile, innocua? Se l’utilizzo di questo linguaggio ti fa rischiare la persecuzione, l’esilio, la galera, la tortura e persino la morte, in quanti sarebbero disposti a utilizzarlo? E perché oggi molte voci poetiche vittime di censura e di brutale repressione, come ad esempio quelle di
Ashraf Fayadh, Ericson Acosta, Zhu Yufu, Mohamed al-Ajami, Liu Xia, Sepideh Jodeyri, Fu Ying, Habib Shalib, Zanele Muholi, Chitra Ganesh, Rana Hamadeh, Irina Ratushinskaya e altre e altri, per il mondo accademico, ma anche per la maggior parte dei cosiddetti poeti, sono solo nomi tanto difficili da pronunciare, quanto facili da ignorare o, al massimo, da dimenticare?


A chi ha fatto della poesia la propria stessa esistenza, difendendo i diritti e la vita altrui; a chi scrive per ogni singolo ascolto e non  per i burocrati della cultura che ti concedono un premio o una medaglia; a chi paga la propria scelta qualunque prezzo, pur di non separare le parole dalle azioni; a tutti loro andrebbe rivolto uno sguardo speciale, più attento, più degno, per capire e imparare qualcosa sul senso della poesia. Il resto, per lo più, sono chiacchiere ombelicali e onanismi da salotto in forma di versi più o meno gradevoli, più o meno accattivanti, che però nulla cambiano o cambieranno delle nostre vite.


Anche la definizione di “poeta”, spesso, coincide coi funerali della poesia, perché in fondo cosa significa credersi o definirsi poeti? Essere poeta è forse un mestiere o un titolo nobiliare? È forse un qualcosa che fa di te una persona migliore e più sensibile? No, persino i peggiori criminali e gli assassini più feroci hanno scritto poesie delicate e versi profumati. Questo fa automaticamente di loro dei poeti e, quindi, anche delle persone più umane e buone? Diffido dei poeti che distinguono la poesia dalla vita reale. Diffido dei poeti quando credono che la poesia debba essere al di sopra e al di fuori della politica alta, delle ideologie nobili, dei valori universali. Chi fa questo per me confonde la poesia con la dattilografia.


Io stesso, pur avendo pubblicato un buon numero di libri di poesia, mi chiedo perché provo ogni volta un profondo disagio, direi quasi un fastidio, quando mi sento definire “poeta”. Non è una forma di snobismo o un modo per atteggiarsi al ribelle di turno che va controcorrente, ma è proprio che non amo e non mi riconosco in questa definizione che, fosse per me, abolirei senza alcun rimorso. Inoltre se, come già detto, la poesia è davvero uno stato dell’essere che appartiene a tutti, dire a qualcuno che è un poeta è inutile e superfluo, perché è come se gli si dicesse che è un essere umano. E poi, in fondo, non è forse vero che la poesia sopravvive sempre a chi la scrive?

 
Forse non ho aggiunto o tolto nulla a ciò che è stato già detto e scritto, di certo non ho risolto dubbi o inaugurato altre frontiere con nuovi adepti, perché sono già sufficienti le innumerevoli correnti che oggi si intestano stili e forme poetiche, lasciando però che il mondo vada in fiamme. Direi quindi che basta, che di quella roba non se ne può più, ma voglio solo ribadire la convinzione che le nostre vite possono migliorare solo raggiungendo un’equità e una giustizia sociale che ci permetta di aprire le porte e abbattere i muri, sia dentro che fuori di noi. Per arrivare anche solo a immaginare di raggiungere qualcosa di simile, la poesia potrebbe tornare utile, a patto che non resti sul suo piedistallo e si apra al resto degli altri linguaggi. A patto che si materializzi finalmente quella “scuola della Poesia” sognata da Leo Ferrè, in cui egli concludeva: “… I versi devono fare l’amore nella testa dei popoli / alla scuola della poesia non si impara, ci si batte!”