RiEvoluzione Poetica

martedì 26 novembre 2013

Intervista al poeta e attivista Lakota-Oglala Luke Warm Water, in Italia per reading e incontri in sostegno del detenuto politico Leonard Peltier, emblema dei prigionieri nativi americani

di Marco Cinque

Luke Warm Water, alias Kurt Schweigman, è un poeta e attivista Oglala Lakota cresciuto a Rapid City, nel South Dakota. La sua poetica è stata considerata una fusione tra Sherman Alexie, Charles Bukowski e Tom Waits. È stato il primo «spoken-word poet» cioè poeta della parola orale a ricevere il premio Archibald Bush Foundation ed è stato un artista di spicco al prestigioso Geraldine R. Dodge, durante la 12° Biennale di Poesia Festival.
Luke è avvocato ed epidemiologo e attualmente vive ad Oakland, in California. Il prossimo 21 e 22 novembre, il poeta Lakota sarà in Italia, a Roma, per un reading organizzato dall'associazione Café Voltaire e per un incontro in un istituto scolastico, il liceo G.B. Morgagni, a testimoniare contro le discriminazioni che ancor oggi si consumano ai danni dei popoli nativi negli Usa, ma soprattutto a promuovere la causa del detenuto politico Leonard Peltier, tra i primi fondatori dell'American Indian Movement. Il nativo di ascendenza Ojibwa Lakota fu condannato a 2 ergastoli nel 1975, dopo essere stato ingiustamente accusato dall'FBI di 2 omicidi avvenuti nella Riserva di Pine Ridge. Da allora Peltier è rinchiuso in una cella, a scontare un sentiero di lacrime che sta durando ormai da più di 37 anni. Oltre che dal Manifesto, la causa di Peltier è stata sostenuta, tra gli altri, dal Dalai Lama, da Desmond Tutu, ma anche da artisti come Robbie Robertson e Bruce Springsteen che gli hanno dedicato dei brani musicali.
Luke Warm Water è membro delle Revolutionary Poets Brigade, gruppo nato durante Occupy San Francisco e fondato da Jack Hirschman, Bob Coleman, Sarah Menefee e Cathleen Williams. Le RPB da allora sono cresciute, arrivate anche in Europa, con un gruppo attivo a Roma che affiancherà Luke nel reading capitolino. Attualmente la tribù poetica internazionale delle RPB è molto presente soprattutto nel vivo del tessuto sociale (scuole, piazze, carceri, periferie, etc.), con esibizioni a Bagdad e nel mondo, portando la parola di quei poeti che sostengono la voce dei poveri, degli ultimi, degli oppressi, dei discriminati.
Grazie quindi alla presenza di Luke Warm Water, cogliamo l'occasione per tornare a parlare di Peltier e dell'attuale situazione in cui versano i popoli nativi del Nord America.

Prima di tutto, quali sono le ultime notizie su Peltier.Le notizie più recenti su Peltier si possono leggere sul sito www.whoisleonardpeltier.info. Invito i lettori a leggere il sito, a firmare la petizione per il suo rilascio e a scrivere ed inviare a Leonard un biglietto di auguri al suo indirizzo nella prigione della Florida; l'indirizzo è reperibile sul sito. La salute di Leonard è andata peggiorando negli ultimi anni ed è più importante che mai che il Presidente Obama gli conceda la grazia per consentirgli di vivere come un uomo libero i suoi ultimi anni insieme alla sua famiglia, ai suoi amici e agli Oyate, il suo popolo.

Peltier è solo la punta di quell'Iceberg di discriminazione e razzismo che si consuma nei tribunali e nelle carceri degli Stati uniti. Percentualmente infatti i Nativi americani sono in cima alla classifica sia delle incarcerazioni che delle condanne capitali e possono inoltre "godere" di leggi razziali come la «Major Crime Act». Credi che qualcosa stia cambiando o che ancora possa cambiare? Non è cambiato nulla per i nativi americani. La percentuale dei nativi dell'intera popolazione carceraria negli Stati Uniti è superiore a quella di qualsiasi altro gruppo etnico. Peraltro, a parità di crimini commessi, i nativi vengono puniti più severamente nel Sud Dakota rispetto ai bianchi.

Ci sono segnali di «risveglio» delle popolazioni native nordamericane, anche quelle canadesi, col movimento di protesta «Idle No More» (mai più passivi), di cui abbiamo dato notizia sul «Manifesto». Che ne pensi?Idle No More è un movimento molto importante per in nativi e per le popolazioni autoctone di tutto il pianeta. Ho partecipato ad un evento organizzato da Idle No More a Oakland a inizio anno. È stato un bell'evento con molti partecipanti.

Qual è la situazione attuale delle popolazioni native negli States?Questa è una domanda complessa poiché esistono più di 500 tribù negli Stati Uniti. Vi è ad esempio il problema della nuova copertura sanitaria nazionale (Obamacare). Non sappiamo ancora che impatto avrà sui nativi americani poiché molti di loro e delle tribù hanno una copertura sanitaria minima come previsto dal governo. Io mi batto molto per migliorare la salute mentale dei nativi americani in California. Vedo un movimento per favorire il benessere tra le comunità indiane che si basa prevalentemente sulle tradizioni culturali e sulla spiritualità e questa è una cosa positiva. Sono inoltre a conoscenza di un progetto nel sud della California dove la clinica di una tribù fa uso di poetry slam per migliorare il benessere dei giovani nativi americani.

Secondo te che ruolo sociale, culturale e politico può avere oggi la poesia, in un mondo dove i linguaggi sono sempre più complessi, tecnologizzati e autoreferenziali?L'appartenenza alla Revolutionary Poets Brigade ha permesso a molti di venire a conoscenza delle ingiustizie subite dai nativi. Sono molto grato a Agneta Falk e a Jack Hirschman per avermi accolto nella RPB di San Francisco e a tutti gli altri membri con i quali ho stretto amicizia. Entrare a far parte della RPB è stato come un proseguimento del mio lavoro iniziato negli anni Novanta, quando scrivevo e portavo in scena la mia poesia per sensibilizzare l'opinione pubblica sul caso Peltier. Ho aiutato a organizzare eventi di raccolta fondi, scritto lettere ed effettuato campagne grazie alla mia poesia. Inoltre, ho partecipato ad eventi organizzati in nome di Peltier. Attualmente sto organizzando un evento che si terrà a San Francisco il 6 febbraio 2014, in occasione del 38° anno dell'incarcerazione di Leonard. Si chiamerà «Poetry for Peltier» (Poesia per Peltier) e vedrà la partecipazione di diversi poeti nativi americani della Bay Area di San Francisco.

Da quel che ho capito tu usi la parola poetica non come forma di vanità, affermazione individuale o esibizione e in particolare prediligi la parola detta piuttosto che quella scritta. C'è una ragione particolare?Preferisco entrambe le modalità, a dire il vero. La scrittura può essere molto emozionante quando si assiste alla nascita di una nuovo testo su carta (o sullo schermo di un computer), così come è emozionante portare in scena la poesia davanti a un gruppo di decine di centinaia di persone. Sebbene non partecipi più ai poetry slam, ne ho vinti diversi in tutti gli Stati Uniti e due in Germania. Per un poeta nativo americano gareggiare per la vittoria ha un grande impatto ed è un atto di rivendicazione. Percepisco che il pubblico si diverte ed al contempo impara.

Traduzione di Alessandra Bava

dal Sito de "il manifesto"
http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/10139/

martedì 25 giugno 2013


SGUARDI NEL BUIO

Marco Cinque

Con Alberto Ramundo, presidente della Cooperativa l'Officina , è iniziato il lavoro su «FinePenaMai - sguardi nel buio», un progetto che entra nelle prigioni attraverso i linguaggi della poesia, della fotografia, del teatro e della musica, cercando di cogliere quelle voci prigioniere, troppo spesso taciute o dimenticate, per restituirle poi al mondo esterno. Quando non ammette che quel «silenzio» fa parte del suo stesso fallimento politico, istituzionale, giuridico, culturale e sociale riguardo alle disastrose politiche carcerarie, ormai distanti dagli stessi princìpi costituzionali.
Lungo la strada che ci porta a visitare i detenuti e le detenute dei penitenziari di Pesaro e quello di massima sicurezza di Fossombrone, ci intratteniamo per qualche battuta con l'addetto al rifornimento di carburante presso una stazione di servizio: «Questi mangiano, bevono e dormono gratis a nostre spese - ci dice il giovane benzinaio - e noi li manteniamo come se stessero in albergo». Forse è ciò che pensa anche una buona parte dei cittadini onesti di questo paese, ma se il carcere si limita ad essere soltanto un luogo di punizione ed espiazione, dove si separano le persone «cattive» da quelle perbene, la sua funzione sarà paragonabile a quella di una discarica per rifiuti umani, costosi, inutili e dannosi.
Finalmente arriviamo nel carcere di Pesaro con attrezzatura fotografica e un permesso concessoci dalla direttrice dell'area pedagogica, dottoressa Erichetta Vilella, che sostiene con entusiasmo il nostro progetto. Non possiamo però ritrarre le persone detenute in modo che siano riconoscibili, così l'idea è quella di raccontare, attraverso i dettagli, la «vita» all'interno del penitenziario: occhi, mani, tatuaggi, oggetti quotidiani, diventano il percorso narrativo attraverso cui vedere e ascoltare, per poi restituire all'esterno i messaggi di quell'umanità separata, relegata al silenzio, costretta al proprio buio. Cerchiamo quindi di vedere oltre la sorda facilità della rabbia, figlia delle immarcescibili logiche dell'occhio per occhio; una rabbia solitamente diretta verso chi ha sbagliato, verso chi commette reati, persino i crimini più odiosi; ma in questo caso i linguaggi dell'arte e della comunicazione ci aiutano in quel processo necessario a riconoscere le nostre responsabilità, il nostro disinteresse, i nostri stessi lati oscuri che ci appartengono ma che ci nascondiamo o fingiamo di non vedere.
Iniziamo con la sezione femminile, quasi tutte ragazze giovani e immigrate. Un piccolo gruppo di detenute accetta di partecipare attivamente alle riprese. Davvero un bel feeling, anche perché alcune sono in corrispondenza epistolare con un vecchio amico, Fernando Eros Caro, condannato amerindiano di ascendenza yaqui, rinchiuso da 30 anni nel braccio della morte californiano di San Quentin. Le ragazze faticano (e a ragione) a non pensar male del sistema giudiziario italiano, ma quando racconto di quello statunitense, con tutte le sue aberrazioni e contraddizioni, capiscono che l'Italia non è proprio l'ultimissima ruota del carro tra i paesi occidentali, in fatto di violazione dei diritti umani nei contesti carcerari. Purtroppo, pensare a qualcuno che sta peggio è solo una magra consolazione, non certo una soluzione.
Poi passiamo alla sezione maschile, molto più nutrita e ben disposta a collaborare. Solitamente, pure se convivono sotto lo stesso tetto, c'è tensione tra detenuti e personale carcerario, ma stavolta siamo fortunati: ci tocca un agente particolarmente disponibile, che ci facilita il lavoro sotto ogni aspetto e si capisce pure che è benvoluto e rispettato dai detenuti. Più che dei singoli casi giudiziari, i prigionieri tengono a farci sapere che i problemi più grandi sono rappresentati dal degrado all'interno del sistema penale italiano. Problemi che rendono un inferno la quotidianità delle prigioni e che spesso i cittadini del mondo «libero» non conoscono e nemmeno immaginano. Le fotografie che man mano scattiamo cercano di mettere a fuoco verità forse più eloquenti ed efficaci di tante parole, di tante spiegazioni: una mano priva di unghie, polsi segnati da cicatrici profonde, sguardi che implorano, chiavi che ci ricordano di stare nei luoghi con più serrature e porte al mondo, anche se ad aprirle non sei mai tu che ci abiti, ma qualcuno che le apre al posto tuo, a volte per anni, altre volte per tutta la vita.
Il progetto FinePenaMai sta dunque prendendo corpo e presto diventerà un libro di poesie e fotografie (i cui diritti d'autore saranno dedicati proprio al condannato a morte nativo americano, Fernando Caro), una mostra fotografica itinerante e iniziative multimediali su tutto il territorio italiano, con una particolare attenzione agli istituti scolastici di ogni ordine e grado.
Quasi s'accende un lumicino di speranza quando racconto ai detenuti che il carcere non è un'istituzione necessaria, inevitabile e non è vero che sia nata assieme all'essere umano e che da esso sia parte inscindibile. Ci sono invece popoli e culture che non solo non prevedevano prigioni nelle loro organizzazioni sociali, ma non avevano nemmeno le parole per definirle, poiché per essi la prigionia non esisteva neanche nella sfera concettuale: «Storici e antropologi hanno scavato la terra del nostro paese per scoprire la storia dell'emisfero occidentale - ricordava Philip Deere, indiano della tribù Muskogee-Creek - ma non hanno trovato prigioni. Non hanno trovato penitenziari. Non hanno trovato manicomi». A rafforzare questo concetto, Cervo Zoppo, nel libro Sai che gli alberi parlano, scriveva: «Prima che arrivassero i nostri fratelli bianchi per fare di noi degli uomini civilizzati non avevamo alcun tipo di prigione. Per questo motivo non avevamo nemmeno un delinquente».

venerdì 17 maggio 2013

COSTARICA
l'utopia realizzata
 

Abolire la mano d’opera per togliere istituzionalmente la vita ad altri significa fare a meno sia dei boia che degli eserciti, rinunciando perciò alle due forme di barbarie più degradanti mai create dalla specie umana: la pena di morte e la guerra. Queste due straordinarie scelte fanno del piccolo Costarica un grande modello di riferimento sociale, culturale e politico da seguire, almeno per tutti quei Paesi che vengono definiti o amano autodefinirsi democratici e civili. Gli scritti di Zingonia Zingone affondano le radici nel paese che le ha dato i natali, il Costarica, da cui probabilmente si riflette anche l’essenza poetica dell’autrice. Le parole di Zingonia sanno essere al contempo delicate e potenti, consolatrici e struggenti, leggere ma profonde, rivelatrici eppure misteriose. Nell’assenza di volgarità, di conflitto, di quella rabbia fratricida che soprattutto in questi tempi tormentati abita sia dentro che fuori di noi, si rivela la vera natura delle poesie di Zingonia, così simile alla medesima natura del paese che le ha insegnato la bellezza, la giustizia e il rispetto che fanno della sua stessa parola poetica un’utopia da realizzarsi in ogni istante della sua vita.

Appuntamento a Roma per giovedì 23 maggio, alle 19,30 presso l'Istituto Cervantes di Piazza Navona 91, al recital in lingua spagnola di Zingonia Zingone, con interazioni musicali dal vivo a cura di Marco Cinque (fiati etnici) e Pino Pecorelli (percussioni etniche).