RiEvoluzione Poetica

venerdì 8 gennaio 2016

PENA DI MORTE? ECCO, CI RISIAMO


di Marco Cinque

Prendo spunto da un orrendo, ennesimo fatto di cronaca, ma anche dalle inaccettabili, feroci e reiterate violazioni dei diritti umani verso le categorie umane più fragili e indifese che, giustamente, colpiscono l’indignazione di ogni persona sensibile che ha a cuore le vittime innocenti di tali infausti eventi.

Svariate persone tra i miei amici e le mie amiche, spesso, manifestano una sorta di predisposizione o sono persino favorevoli al ritorno della pena di morte riguardo ad alcuni crimini, soprattutto quelli più odiosi ed efferati. Vorrei innanzitutto chiarire che la mia contrarietà assoluta, senza se e senza ma, alla pena di morte, non significa che io giustifichi o difenda o approvi i criminali e/o i crimini che essi compiono. Nient’affatto.

Dunque, ragionandoci sopra, provo a partire da me stesso come individuo, come persona, come singolo essere umano e, senza ipocrisie ma in tutta onestà, mi chiedo: cosa farei se qualcuno/a uccidesse mio figlio, torturasse mia madre, facesse a pezzi mia moglie, stuprasse i miei nipoti e via dicendo? Ora, per mia grande e buona fortuna, non mi è dato sapere quella che potrebbe essere la mia reazione, ma non posso escludere, nel modo più assoluto, che potrei anche essere capace di una reazione cruenta, violenta, fino ad arrivare a trasformarmi persino in un omicida.

Attenzione però, questa sarebbe solo una mia reazione individuale che non avrebbe la pretesa di fungere da modello o essere educativa per chicchessia, sarebbe solo la mia personale e umana risposta a un grande dolore che è stato inflitto, sia a me stesso che alle persone a me più care.

Quando invece parliamo di “pena di morte”, non ci stiamo più riferendo a reazioni individuali, ma a una risposta istituzionale di un intero Paese, uno Stato o un governo che rappresenta tutti e che, in quanto rappresentante di tutti, deve essere modello di riferimento e promuovere messaggi educativi e costruttivi.

Ma cos’è la pena capitale se non un messaggio palesemente contraddittorio attraverso cui, uccidendo, si pretende di insegnare a non uccidere? E’ come se un insegnante pretendesse di insegnare la non violenza usando la violenza sui suoi stessi alunni. “Una guerra – per ricordarlo attraverso le parole di Albert Camus – che un intero Stato dichiara a un singolo cittadino”. O ancora, citando come esempio il monito del reverendo Jessie Jackson: “quando è uno Stato ad uccidere siamo tutti boia”.

E, dunque, come potrebbe mai uno Stato davvero civile, mi chiedo, considerare immorale e improponibile il fatto di legalizzare e far propri reati come il furto, la truffa, lo stupro ed ogni altra sorta di sevizia, per poi non esitare a legalizzare e far proprio, nel modo più freddo, razionale, spietato e premeditato, il peggiore di tutti i crimini: l’omicidio?

La “legge del taglione” ha caratterizzato, fin dagli albori della civiltà umana, l’organizzazione sociale di molte comunità. Di fatto la pena di morte è uno strumento punitivo, impropriamente considerato il “braccio severo della giustizia”, che non possiede affatto il dono dell’equità. Se ad esempio il presidente di una nazione ordinasse (come è capitato e continua a capitare), per motivi strategici, di bombardare una comunità che ospita anche persone inermi, non ci sarebbe mai nessun giudice o giuria a condannarlo. Quel massacro sarebbe considerato al massimo un effetto collaterale, utile e necessario a mantenere intatta l’integrità della giustizia dominante corrente. Più facilmente, al mandante e agli esecutori di quelle stragi verrebbero riconosciute virtù molto vicine al coraggio e all’eroismo.

Se invece una singola persona, che magari ha pure la sventura di appartenere a un ceto sociale umile, uccide un altro essere umano, ecco che avrà forti probabilità di trasformarsi in un feroce assassino, un bruto, un mostro. Ma dov’è davvero la differenza tra gli omicidi di un presidente e quelli di un poveraccio? Forse nel potere che ognuno di essi detiene e rappresenta? O nel numero delle vittime soppresse: quando sono troppe, allora il mostro diventa eroe?

Uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori della morte legale sta nell’affermare che tale sanzione avrebbe un potere deterrente e intimidatorio verso i potenziali criminali, ma i dati statistici di ogni epoca storica hanno dimostrato e continuano a dimostrarci che questo non è vero. Al contrario, proprio nei paesi dove vige la pena di morte, prospera e si propaga la criminalità più efferata. Una statistica inglese dei primi del 1900 affermava che su 250 impiccati 170 avevano precedentemente assistito ad una o più esecuzioni capitali. Sempre in Inghilterra, all’epoca in cui la pena di morte era prevista anche per ladruncoli e truffatori, durante ogni esecuzione pubblica venivano presi con le mani nel sacco almeno un paio di borsaioli mentre alleggerivano gli spettatori che assistevano all’impiccagione dei loro “colleghi di lavoro”.

Oltre alla questione morale (se sia o meno giusta la pena capitale) e alla luce dei dati statistici che denotano una visibile flessione dei reati di omicidio nei paesi abolizionisti, vien da pensare che la pena di morte non sia utile né a combattere e né, tantomeno, a cancellare l’ingiustizia e il crimine dalla faccia della terra.

Concludo con una provocazione, affermando che se mai mi ritenessi favorevole alla pena di morte, dovrei assumermi totalmente la responsabilità di ciò che dico o auspico. Vale a dire che se dovessi davvero prevedere una morte, persino lunga e dolorosa, all’odioso mostro di turno, quel lavoro sarebbe giusto lo facessi con le mie stesse mani, senza demandarlo al boia di turno che, in tal modo, mi dispenserebbe dal ritenermi l’autore materiale di quel crimine, evitandomi di conviverci per il resto della mia vita.

Nel mio più che ventennale lavoro itinerante che cerco di portare avanti, soprattutto tra i giovani e nelle scuole, provo ogni volta a gettare i semi per sognare assieme un mondo migliore, più giusto e umano di quello attuale. Pertanto, non posso avere tentennamenti o esitazioni o ambiguità sulla questione “pena di morte”, ecco perché dico e dirò, sempre e comunque, un fermo NO ad ogni sua ipotesi o forma, continuando a credere sino in fondo in quel “restiamo umani” con cui Vittorio Arrigoni concludeva ogni suo scritto. Una mia, seppur minima apertura verso qualunque violenza premeditata dell’uomo sull’uomo, tradirebbe questo principio e mi renderebbe parte integrante e partecipe della disumanità che dico di voler combattere.

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