RiEvoluzione Poetica

giovedì 7 aprile 2016

OMBRE ROSSE A SAN QUENTIN

ALIAS - agosto 2007
OMBRE ROSSE A SAN QUENTIN

Reportage e intervista al condannato Fernando Eros Caro, indiano di ascendenza yaqui prigioniero da oltre 26 anni nel braccio della morte di San Quentin

Marco Cinque, San Francisco

“Proprio un bel posto per passarci una buona vacanza”, è la prima cosa che ti frulla per la testa alla vista della baia che ospita il complesso carcerario di San Quentin. E magari almeno il 70% dei cittadini americani si chiederebbe: “perché mai ospitare, a spese dei contribuenti, dei criminali in un luogo così incantevole?”.
Sono andato trovare un mio vecchio amico fraterno, Fernando Eros Caro, un indiano yaqui rinchiuso da più di un quarto di secolo in questa città penitenziaria, con l’accusa di duplice omicidio. Naturalmente, il suo caso giudiziario è la fotocopia di migliaia di altri casi, immancabilmente segnati da razzismo, pregiudizio e discriminazione, dove soprattutto chi è povero e con l’aggravante di appartenere a una qualche minoranza, ha le carte in regola per entrare a far parte delle schiere dei dead man walking statunitensi.

Nel braccio della morte
All’ingresso trovo una fila di persone in attesa. Sono congiunti e amici che vanno a visitare i prigionieri nel braccio. Sui muri dei corridoi campeggiano avvertenze per il pubblico, specialmente divieti categorici, persino riguardo al taglio e al colore degli abiti: castigati, senza scollature o aderenze eccessive e con una limitatissima varietà cromatica consentita.
Quando finalmente arriva il mio turno, mi accorgo con sorpresa che il personale carcerario è sì fermo, ma anche molto gentile e talvolta persino sorridente. Un timbro con inchiostro invisibile sull’avambraccio conclude le operazioni di controllo. Ti passano al setaccio per evidenti ragioni di sicurezza, mica per degradarti. Già, la sicurezza, ormai solo pronunciarla questa parola evoca incubi e ti fa scorrere un brivido lungo la schiena.
Si cammina lungo una linea gialla, sotto un sole che picchia, prima di arrivare a uno dei due accessi  che conducono alle sale delle visite. Qui, ancora lo sbarramento di due massicci cancelli elettronici. Credo che le prigioni abbiano più porte e serrature di qualsiasi altro edificio, anche se aprirle è consentito esclusivamente al personale carcerario.

L’incontro
Fernando mi aspetta in piedi, ammanettato con le mani dietro la schiena, in una gabbia per polli in stile Guantanamo. È sorridente e i suoi occhi sprizzano una gran felicità, perché finalmente sono arrivato. Prima di poterlo salutare, però, devo aspettare che il secondino svolga tutta la rituale prassi del caso.
Seduti uno di fronte all’altro iniziamo a chiacchierare di tutto, dalla politica alla filosofia, dall’ambiente alla spiritualità e lui, malgrado sia stato tagliato fuori dal mondo da 26 anni, è in grado di intavolare discorsi attuali, colti, profondi. Ci guardiamo e ci tocchiamo continuamente per convincerci di essere davvero l’uno davanti all’altro. Con un geniale italiano da autodidatta e un sorriso accattivante che lui porta sempre stampato sul volto, mi parla del suo caso e dei progetti da realizzare.  È un bravissimo pittore ed oltre alle esposizioni organizzate da me e dai suoi sostenitori europei, ora sta lavorando a un libro di leggende e poesie del suo popolo yaqui, per trasmetterne retaggi e saperi.

La vita nel braccio
Si rabbuia quando gli chiedo di raccontarmi del luogo dove vive: “Ogni piano dell’edificio principale è composto da due blocchi” – dice – “e ciascun blocco conta 57 celle da moltiplicare per cinque piani. Non puoi vedere il mondo fuori e nemmeno stenderci le braccia nel tuo sgabuzzino di cemento di un metro e mezzo per due metri e settanta. Del cibo poi meglio non parlarne: qui non mangiamo, veniamo nutriti! Spesso, quando vedo quei vassoi di robaccia fredda e nauseabonda, ne rovescio direttamente il contenuto nel water.
Dalle tubature fatiscenti dell’edificio trasuda in abbondanza dell’acqua fetida che dai piani superiori passa a quelli sottostanti. Così gli ambienti dove viviamo sono terribilmente umidi, malsani e pieni di batteri. Freddissimi d’inverno e asfissianti d’estate. L’assistenza sanitaria poi è una barzelletta. L’altro giorno il medico che mi ha visitato ha esclamato: “Ma lei ha urgente bisogno di vitamine”. Peccato non sappia che la frutta ci è stata totalmente preclusa da almeno sei anni.
Il braccio della morte è un giorno agonizzante dopo l’altro e tu lo devi vivere col suo tanfo insopportabile e con un chiasso ininterrotto fatto di urla di secondini e detenuti, clangore di porte ferrate, tintinnio freddo di manette e catene e ogni altra sorta di rumore che non ti mette affatto di buon umore. Siamo sottoposti a ogni tipo di tortura, fisica e mentale, come se ammazzarci non fosse già abbastanza. E sai perché non ci gassano più come hanno imparato dai nazisti? Perché l’ultima volta che l’hanno fatto, malauguratamente, hanno concesso a una televisione di riprendere l’esecuzione e quell’agonia orribile non ha avuto un buon effetto sull’opinione pubblica”.

Gli altri ospiti del braccio
Mentre parliamo, dalla nostra gabbia posso vedere quelle dove gli altri prigionieri intrattengono le loro visite. La cosa sorprendente è che la maggior parte di loro ha volti e atteggiamenti lontani anni luce dallo stereotipo che dipinge i condannati a morte come una sorta di cani rabbiosi e pericolosi. Con parecchi riesco persino a scherzare, intrattenendo battute e saluti.  Ma è scioccante dover constatare la gran quantità di bambini, alcuni piccolissimi, distribuiti in varie celle.
Una bimba ispanica è tristissima, ha gli occhi rossi e inizia a singhiozzare disperatamente quando la madre la riporta fuori, a visita terminata. Confido a Fernando di essere piuttosto sorpreso dalla relativa gentilezza dei secondini. “Mandano qui i migliori” – sussurra – “perché la gente creda che ci trattano bene. In verità la maggior parte di loro è sempre arrabbiata e cerca qualsiasi pretesto per sfogare sui prigionieri la propria rabbia, la propria frustrazione. Nessuno li controlla se abusano del loro potere, anche perché rappresentano una lobby elettorale compatta e potente.  Quasi tutti sostengono Bush e tutta la sua cricca di repubblicani che si ingrassano con le prigioni, il petrolio e le guerre”.
A due celle da noi c’è Jack, un detenuto conoscente di Fernando che ci saluta. Ha la faccia devastata e il corpo piegato. “Lo pestano tutti, guardie e prigionieri, solo perché è un solitario”. Ma non c’è bisogno che Fernando aggiunga altro, perché se provo a guardare nella direzione di Jack, quelle pochissime volte che lui alza il capo, invece dello sguardo incontro un abisso di dolore e disperazione. È un uomo spezzato, a cui hanno fatto saltare tutti i denti, sfondato un timpano, devastato gli occhi. Vorrei urlare, piangere, tirarlo fuori di lì. Fin da bambino è stato seviziato, lo svela il tatuaggio che porta come il marchio di un destino già segnato: “non mi fido degli uomini”.

Il dono
Fernando ruota furtivamente gli occhi in tutte le direzioni, come se stesse cercando qualcosa, poi bisbiglia: “devo darti una cosa importante, ho qui un regalo per te”.  “Sei matto?”, gli rispondo: è una cosa proibitissima scambiare qualsiasi oggetto tra detenuti e visitatori. Potrebbe passare un sacco di guai, ma lui mi rassicura con uno dei suoi sorrisi magici. Quindi, tira fuori una collana di pelle intrecciata da cui pende uno splendido medaglione intarsiato di perline che ritraggono un’aquila stilizzata. È un dono bellissimo, che lui ha fatto per me con le sue mani. Poi benedice la collana e me la fa indossare, nascosta sotto la camicia. “Un’aquila non può stare prigioniera, deve essere libera di andare” – scandisce – “portala con te e porterai fuori anche una parte di me. Nessuno dei secondini vedrà il mio spirito accompagnarti, stai tranquillo”. “Puoi scommetterci, fratello”, ribatto col tono di chi sembra aver organizzato chissà quale evasione invece di un innocente scambio di doni.
La visita finisce, restiamo abbracciati come fratelli, per un lungo tempo. Abbracciare una persona condannata a morte è un’esperienza difficile da raccontare: è stato quasi come se gli avessi lasciato una fetta della mia libertà, per portarmi via almeno una goccia di quel mare di sofferenza senza scampo.

Dopo la visita
Fuori c’è un bel sole e la forte brezza profumata dell’oceano Pacifico spazza l’ampio parcheggio interno di San Quentin, dove secondini e addetti s’incrociano, si parlano, si salutano. Alcuni se ne vanno, altri arrivano. Sembrerebbe tutto a posto, tutto tranquillo, tranne il fatto che il loro non è un lavoro qualsiasi. Siamo in un mattatoio per umani dalle vite a perdere e la cosiddetta “normalità dell’orrore” abita profondamente le coscienze sopite della maggior parte delle persone di questo luogo, ma si direbbe anche dell’intero Paese.
Dopo l’incontro, mi arrampico su una collinetta rivolta proprio verso il penitenziario, tiro fuori il medaglione e poi, rivolto in direzione di quel muro di lacrime, recito il saluto yaqui appena insegnatomi da Fernando, pensando alle sue ultime parole prima di salutarci: “Lasciati attraversare dal vento, solo così conoscerai il suo colore”.

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