RiEvoluzione Poetica

domenica 5 novembre 2017

MANIFESTO DELLA POESIA CHE MI IMPORTA


di Marco Cinque


Se è così vero che “con la poesia non si mangia”, perché barattarla o comprometterla con promesse di gloria che non ti sfamano e ti lasciano comunque digiuno? Se proprio ti condannano o t’auto-condanni a morir di fame, non è forse meglio farlo con dignità? Per questo cerco di capire cosa, della poesia, mi interessa o meno.
Non mi interessa la poesia che, come una punizione mnemonica o una condanna alla noia, viene imposta e studiata a scuola. Non mi interessano le rassegne letterarie (più o meno altolocate) di nomi (più o meno noti). Non mi interessano i festival delle marchette, i salotti accademici di cattedratici mummificati. Non mi interessano le competizioni e le gare poetiche di esibizionisti che fingono rivoluzioni. Non mi interessano i premi letterari per arrivisti o raccomandati da facoltosi editori. Non mi interessano le ammucchiate indistinte di indistinti autori. Non mi interessano le raccolte antologiche che sono soltanto insalate miste di versi, infeconde adunate di esercizi di stile. Non mi interessano le allisciate ruffiane a critici e recensori. Non mi interessa quando critici e recensori cercano di spiegare la poesia da uno scranno, quando invece la poesia non si spiega e non si piega con trattati o supponenti teorie.
Non mi interessa quando la poesia, e l’arte più in generale, diventano vetrine per esibire, per arrivare, per vendere, per comprare.
La poesia che mi importa è quella che ti fa star male, quella che ti mette nudo davanti allo specchio delle tue contraddizioni.
La poesia che mi importa è quella senza piedistalli, che dona se stessa, che è capace di rivolgersi a ciascuno e ad essere compresa da tutti.
La poesia che mi importa è quella che va oltre le parole, che coinvolge i corpi, le idee, le risorse, quella che accomuna e che sa farsi davvero coerente e concreta.
La poesia che mi importa è quella che lavora per gli altri, ogni giorno, ma anche quella che ogni giorno gli altri dovrebbero sostenere.
La poesia che mi importa è una continua lotta, un febbrile impegno.
La poesia che mi importa è il sangue degli altri che diventa il tuo sangue.
La poesia che mi importa è il bene degli altri che diventa il tuo bene.
La poesia che mi importa è una resa incondizionata alla bellezza.
La poesia che mi importa è il tempo che tu ti sei preso per leggerla.
La poesia che mi importa è lo spazio che ciascuno si regala per viverla.

La poesia che mi importa è quella che una volta scritta o detta non è più tua ma di tutti.
La poesia che mi importa è una gioia raggiunta con la sconfitta e il dolore.
La poesia che mi importa è un anonimo atto di smisurato amore.

giovedì 5 ottobre 2017

PATRIMONIO MIGRANTI



 di Marco Cinque

I nostri antichi progenitori hanno iniziato a viaggiare partendo dal continente africano e distribuendosi poi in ogni parte del pianeta. Da allora, sono iniziate quelle migrazioni ininterrotte che continuano ancora oggi, che continueranno domani e ogni altro giorno futuro.
 

Nei viaggi di ciascun migrante però, fin dalla notte dei tempi, non c’è stata solo una semplice voglia di “cambiare aria” o di scoprire qualche nuovo orizzonte, ma più spesso una fuga da contesti drammatici come la povertà, la fame, le carestie, le persecuzioni e le guerre.
 

Dietro ogni singola storia individuale, dietro milioni e milioni di anime costrette loro malgrado a migrare, potremmo trovare tantissime storie di autentico eroismo per tutte le deprivazioni e le difficoltà che hanno dovuto sopportare, solo per poter affermare la propria umanità o per realizzare un’esistenza più decente.

Tra queste migrazioni millenarie, alcune hanno avuto una caratterizzazione economica e/o politica, essendo state decise e organizzate dagli stessi governi e regimi che hanno decretato enormi flussi migratori, trasformatisi poi in tragiche colonizzazioni; queste ultime hanno avuto un carattere violento, devastante ed hanno procurato stermini e genocidi di intere popolazioni: 70 milioni solo tra i nativi del cosiddetto “Nuovo Mondo”, stimati tra il 1492 e la fine del 1500. Considerando gli abitanti dell’intero pianeta di quei tempi, in un solo secolo, queste invasioni hanno quindi cancellato dalla faccia della Terra quasi un quinto dei suoi abitanti complessivi.


Poi ci sono state anche altre migrazioni massicce, come quelle degli schiavi africani, che evidentemente non sono state “volontarie” come le altre ma sono invece state frutto di feroci deportazioni che hanno macchiato di sangue e di vergogna la storia dell’umanità.
 

Oggi, i Paesi arricchitisi con le vampiresche politiche coloniali, sono a loro volta diventati meta per milioni di migranti provenienti dagli stessi luoghi invasi, derubati, spossessati, devastati e impoveriti dalle orde dei conquistadores europei.


I muri di ogni genere che attualmente si erigono per respingere e/o rinchiudere gli immigrati, rappresentano la vergognosa negazione di ogni responsabilità da parte dei Paesi arricchitisi a svantaggio di quelli così a lungo depredati di beni e risorse.


Nel caso dell’Italia le responsabilità sono persino doppie, dal momento che le sue politiche nefaste hanno prodotto sia emigrazione che immigrazione; sia flussi di poveri e disoccupati che vanno, sia masse di disperati e perseguitati che vengono. Ma in rapporto al numero percentuale dei suoi abitanti l’Italia è il paese che più di ogni altro ha emigrato: Solo tra il 1860 e il 1885, infatti, sono state registrate più di 10 milioni di partenze dall'Italia e, nell'arco di poco più di un secolo, un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione che vi era al momento della proclamazione del Regno d'Italia (23 milioni nel primo censimento italiano) si trasferì in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale e in parte del Nordafrica.
 

Chi può ora arrogarsi il diritto di rifiutare i cittadini stranieri mentre pretende che gli altri accettino i propri? Chi può permettersi l’indignazione per le discriminazioni riservate ai propri emigranti ma, a sua volta, discriminare gli immigrati? Chi può pensare che i diritti civili e umani debbano valere solo per chi parte e non per chi arriva?


Quando capiremo che il diritto di cittadinanza andrebbe abolito e che dovremmo essere promossi tutti/e cittadini/e del mondo con pari dignità, invece che restare cittadini/e di questo o quel paese, vale a dire persone di serie A e persone di serie B, solo allora le migrazioni smetteranno finalmente di essere considerate un problema e saranno invece una risorsa, una ricchezza, una necessità e un patrimonio inestimabile per l’intera umanità.

venerdì 19 maggio 2017

A SCUOLA DI POESIA



di Marco Cinque

 
Continuo a credere che la poesia bisogna prima seminarla per pensare di poterla vedere germogliare in futuro. E quali luoghi sono più adeguati a questa semina se non le scuole? Quale terreno fertile può accogliere questi semi, se non quello dei quotidiani di tanti alunni e studenti, che invece spesso detestano la poesia, perché distante dai loro linguaggi, dalle loro realtà e ormai anche dai loro sogni?
Eppure mai come oggi ci sarebbe bisogno di poesia, in tempi dove il degrado dell’essere sembra inarrestabile e dove stiamo subendo una mutazione non solo sociale, politica e culturale, ma addirittura antropologica.
Questi segnali sono evidenti nei personalismi, negli egocentrismi, negli individualismi e in tutti gli altri “ismi” che stanno contaminando ogni sfera, ogni ambito delle nostre esistenze. Una contaminazione peraltro facilitata da quell’imponente e onnipresente arsenale di armi di distrazione di massa che svuotano di realtà e riempiono di virtuale i nostri giorni.
Piccole sacche di resistenza sono disperatamente necessarie per arginare questa deriva, una resistenza fatta di contenuti, di verità e di bellezza da veicolare proprio con linguaggi come la poesia, che vive ancora malgrado molti poeti si siano invece già arresi all’oblio sterile di quell’autoreferenzialità che non include, ma esclude. Che non educa, ma addestra.
 Per questo le scuole dovrebbero diventare i luoghi più sacri e ambiti da chi ancora crede che la poesia possa contribuire a determinare un cambiamento o  almeno una difesa di ciò che ancora resta della nostra umanità. E’ qui, in questi luoghi molto impegnativi ma poco remunerativi che i poeti possono imparare molto e crescere assieme alla poesia. E’ qui che possono davvero capire se le loro parole hanno un senso, una ragione, un’eredità utile per le future generazioni.
Negli istituti scolastici, dove ho la fortuna e il privilegio di interagire, ho capito molto più di poesia che non da quegli eminenti depositari che hanno sequestrato questo linguaggio, piegandolo alle ragioni dei loro ombelichi o ai competitivi mercati della vanità.
E così, forse, più che le mie, sono utili le parole e le ragioni (che mi hanno commosso e inorgoglito) spiegate dagli stessi alunni, dopo una di queste esperienze condivise:

“Il 18 Febbraio 2016 lo scrittore e musicista Marco Cinque è venuto a trovarci nella nostra scuola per un incontro con le classi I, II, e III L del tempo prolungato. Questo incontro fa parte del progetto “Leggere danneggia seriamente la tua ignoranza”, a cui le tre classi partecipano in questo anno scolastico in collaborazione con la libreria “Il Pellicano”.
Per noi è stata un’occasione entusiasmante, completamente diversa dalle nostre solite lezioni scolastiche perché abbiamo avuto la possibilità di incontrare uno scrittore e musicista, ma soprattutto un uomo appassionato del suo lavoro. Marco ci ha spiegato come i diversi linguaggi (le parole e la musica) possono fondersi insieme creando qualcosa di armonico e straordinario e ce lo ha dimostrato recitando una sua breve poesia. Inizialmente senza usare l’intonazione e senza rispettare le pause, poi invece è riuscito a drammatizzarla variando il tono della sua voce e accompagnandola con il suono della sua musica. Quando Marco Cinque ha preso in mano i suoi particolari strumenti come la Sansula, il bastone della pioggia, lo scacciapensieri etc., siamo rimasti letteralmente senza parole e abbiamo ascoltato in profondo silenzio l’armonia di quei suoni che riproducevano melodie naturali, lasciandoci immaginare luoghi lontani. Siamo stati coinvolti nella scrittura di un testo poetico partendo da ciò che ci veniva in mente alla parola “Mi piace” e ”Non mi piace”, poi Marco ha scelto alcuni di noi che hanno recitato ad alta voce i versi composti mentre altri ragazzi suonavano i suoi strumenti.
Abbiamo sperimentato veramente cosa significa realizzare un piccolo concerto poetico. Nella seconda parte del nostro incontro Marco ci ha raccontato una sua esperienza nel carcere di San Quintino in California, nel reparto del “braccio della morte”. Qui sono detenuti i condannati a morte (circa 700) tra i quali Fernando, un nativo americano condannato a morte con cui Marco ha intrattenuto una corrispondenza epistolare dal 1992 e che è diventato poi suo “fratello adottivo”. Questa è stata un’occasione per parlarci di alcuni temi importanti come quello del razzismo, del non rispetto dei diritti umani e della pena di morte. Noi ragazzi abbiamo partecipato con domande a cui Marco ha ampiamente risposto chiarendo i nostri dubbi e curiosità. È stato molto emozionante quando ci ha mostrato il medaglione con l’immagine di un’aquila, realizzato da Fernando e da lui donato a Marco come simbolo di fratellanza e presenza del suo “spirito” ovunque lui andrà.
Abbiamo anche imparato il saluto della tribù indiana di Fernando che consiste nel battere prima due pugni sul cuore, poi due dita sulla spalla sinistra e infine nel distendere il braccio segnando l’orizzonte, un gesto che può avere un grande significato anche per noi: “Fratelli, insieme, nel mondo”.
Speriamo che questa nostra amicizia appena iniziata con Marco possa continuare nel tempo per farci vivere altre emozioni e per farci conoscere ancora le sue grandi esperienze. Grazie Marco!”.

In verità sono io che non smetterò mai di ringraziare questi ragazzi e ragazze, per saper accogliere la poesia e restituirla come un dono, in un viaggio splendido da riempire di testimonianze, rivendicazioni, paure e sogni che abitano le strade del nostro tempo. Strade affollate dove ciascuno è altrove, ma dove la poesia aiuta a coniugare il vero nucleo del verbo vivere, così necessario per non restare soli.

lunedì 23 gennaio 2017

Una volta era sinistra




Marco Cinque
Una volta, quando eravamo di sinistra, quando ci dicevamo comunisti, quando ci chiamavamo compagni, quando ci consideravamo anticonformisti e via dicendo, negli anni ‘70 e ’80 insomma, non ricordo che stavamo lì a badare se il nostro voto andasse a un partitino minuscolo o ad un movimento politico senza speranza.
Anzi, ricordo che pure allora, quando ad esempio nel mio quartiere, San Basilio, si seppe che la mia famiglia votava compatta per Democrazia Proletaria, ci fu una sollevazione dell’area PCI che ci accusava, spesso pesantemente, di togliere voti alla sinistra, di sprecarli, di fare un favore alla destra.
Ma nella cosiddetta “sinistra extraparlamentare” non si accettava il compromesso, nelle elezioni politiche, di votare il meno peggio, di scegliere tra l’incudine e il martello, quelli che probabilmente avrebbero vinto e governato.
Attualmente mi pare ci sia lo stesso problema. Ma noi, sognatori come eravamo, tenevamo duro e pensavamo che la sinistra che fa il miglior lavoro è quella che non si sporca le mani col potere. Ed è stato così. E’ stato esattamente così: solo con la sinistra all’opposizione si è raggiunto un livello decente di conquiste sociali, politiche, culturali e civili.
Oggi la sinistra non esiste più, o meglio, quella che dovrebbe essere la sinistra istituzionale e governativa è solo un’etichetta per definire, in buona sostanza, una destra capitalistica un po’ diversa dalla destra populista o xenofoba. Ma è una sinistra sostanzialmente molto più simile alla vecchia DC che al PCI. E questo si può riscontrare perfino nell’evoluzione (o involuzione) del nome: DS.
Sono cambiati i tempi e sono cambiati i nomi, ma in fondo le persone di questo paese sono le stesse, semmai un bel po’ peggiorate e ingrigite, anche perché sono peggiorate e ingrigite le relazioni umane.
Non è una questione politica, alla quale sarebbe più facile trovare soluzioni e dare risposte, ma una questione culturale: ci stiamo trasformando da “animali sociali” in “animali individuali” e questo, oltre che andar contro la nostra stessa natura, determina anche lo stato attuale dell’arte.
Adesso noi, tutti quei sognatori che eravamo e che siamo rimasti, sappiamo benissimo che non si può dare una risposta politica a un problema culturale.
Questo è il tempo della semina. Il tempo di rimettersi in gioco nel proprio piccolo. Il tempo di non demandare a qualcuno che già sappiamo non potrà risolvere i nostri problemi. Il tempo di riaprire le porte anziché chiuderle. Il tempo di ricordarsi che siamo, appunto, “animali sociali”. Il tempo di tornare ad essere umani, anche se il tempo, forse, si è stancato di darci altro tempo.